11 LUGLIO 2002
L'immagine è di Bjorn Oldsen.
Diego teneva tra le dita, stretto, ghiacciato, mentre seduto sul divano mi fissava negli occhi, teneva un bicchiere di rhum, e lo stringeva come fosse stato il cuore del mio petto. Un groviglio di dita e di fili a trattenermi le parole in precipizio, a impedirmi di cadere sulla nuda verità dentro sporche menzogne. Per lui non ero pronta. Ed era vero come quel sole di luglio che seccava i fiori sul terrazzo. Ma il battito di vetro aveva iniziato a vibrare sin dall’inizio, precipitosamente.
- Cosa fai qui? - ed era domanda da inghiottire con la terra che ancora mi reggeva.
La lingua arida. Il corpo immobile da marionetta scema. Solo la figa sembrava aver ascoltato la richiesta, richiamando una pioggia che mi gelava le gambe, una pioggia fuori stagione.
Decisamente fuori stagione. Che se di pavimenti in parquet da strofinare con le ginocchia come Cenerentola avessi avuto voglia, avevo stavolta davvero sbagliato indirizzo. La fata turchina m’aveva invitato al castello dell’orco, e non c’era nessuna scarpetta a dare un senso alla storia.
Diego, vuotando il bicchiere, guardava il mio corpo come una litografia sul muro griffata De Chirico, allungava le dita coi fili ancora serrati sugli arti dei miei movimenti, le allungava a far morire in se stessa una fragile longilinea sigaretta, così che il puzzo bruciato di passo troppo lungo alla gamba m’arrivasse al cervello come uno sparo per cui non ci fosse rimedio. E contava pure che il fumo alzasse la nebbia per l’aria, così esplicita e fin troppo reale, così evidente da fare violenti i papaveri all’orizzonte sui castelli romani.
Non ho mai pensato che avrei trovato il baratro della disperazione a qualche isolato dal mio appartamento.
Le dita muovevano freneticamente a consumare il filtro, ad ostruirlo dei capelli svolazzanti allo scirocco, portando scompiglio all’ordine atavico dei fatti:
- io ero di Michael, ero Sua, punto e basta;
- Diego, tra gli amici, era un fratello di mente.
Dal che il collare con i 7 anelli m’era stato stretto al collo, Diego s’era escluso dal tenere al guinzaglio una cagna di razza, fedele e addestrata. Diego preferiva le cucciole ancora cieche alla vita.
Eppure quel giorno qualche bastarda, famelica ragione, doveva aver cancellato le tracce del piscio che m’avvertivano dei limiti del mio territorio.
Eccola, la follia agghiacciante che m’ero andata a cercare, mi veniva incontro, m’incombeva addosso con un bicchiere alla mano e una cicca allo stremo fra le labbra contratte. Sopra, mi gravava d’ombra in controluce.
- Bevi? - il tono calmo, in bianco e nero, colato freddo dal metallo.
- Sì - giaceva in punta. Ma Diego non volle sentire, urlava grave la sua rabbia sferrando un colpo e poi un altro, un altro ancora finché uscì sangue dalla bocca e dal naso, uscirono lacrime a farmi dolore e vergogna, a farmi schifo d’immagine e troia.
Certo è che imploravo dimenticando decenza e determinazione, perdendo il coraggio di quel drin elettrico di campanello alla porta. Strisciavo infame come il verme che ero.
- Che cazzo credevi di fare venendo qui? Troia! Rispondi! Che cazzo pensavi? Di farti uno dei tuoi amichetti sempre lì a sbavarti dietro come la cagna che sei? Rispondi che cazzo credevi?
A sbiascicare stordita risposte una vera cagna sarebbe stata più chiara. Io non riuscivo neanche guaire che lo stomaco mi strozzava il respiro.
Diego era accecato dall’ira.
Sapevo che avrebbe reagito. L’avevo sfidato.
E non si getta una pietra a fare cerchi sull’acqua sperando che poi non finisca sul fondo.
P. S.
Questa mattina, 11 luglio 2005, ha recitato un biglietto a braccetto di mazzo:
--- (2002) ---
D.
(A Diego)
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