26 marzo 2006

Ludovica



Ludovica è una gatta nera da cui non riesco a staccare gli occhi, fa oscillare il guinzaglio come fosse una coda. La definirei il tipo ninfomane che di giorno se ne sta rinchiusa in ufficio, ma la notte, la notte è lei che la porta.

Eppure a guardarla, in un certo senso mi fa ridere. Mi innervosisce, si atteggia, è plateale.

Mi chiedo se almeno la metà di quel nero che indossa le attraversi la mente.

“Diamine!” esclama, venendomi incontro, “forse hai sbagliato indirizzo tesoro…”, mi sorride maligna, “c’erano dei bellissimi palloncini lungo la strada, proprio qualche villetta più avanti, probabilmente è li che ti aspettano. Oh povera cara…”, è palesemente teatrale, e aggiunge, “sei proprio un amore”, finché sbotta e ride fragorosamente.

Il senso di fastidio che provo è immediato, fino alla radice dei denti la sento volgare.

Lei ride e i curiosi si voltano, l’assecondano.

La sua intenzione è bonaria, lo so, ma il disagio è un pugno diretto allo stomaco, sono consapevole di stonare più di lei in quell’ambiente, così conciata, come una collegiale al primo giorno di scuola, con la gonnellina a volant e le ballerine ai piedi.

Sono ridicola.

Ma il fatto è che, se mi comporto come una bambina piccola, da bambina piccola mi devo vestire… e, anche se non voglio, come adesso, io mi faccio stizzosa, e lei finisce per starmi immancabilmente sui nervi. Io le vorrei rispondere, gridarle che mi deve rispetto.

E Michael intanto lo sento, ci guarda, ci lascia fare, si capisce, lui mi trova divertente. Ed io mi inquieto, con lei mi irrito di più, e non posso evitarlo. Con le altre donne sono sempre maledettamente competitiva, e lui lo sa, mi stuzzica appositamente dove sono più sensibile.

Mi ha chiesto di vestirmi così, mi ha chiesto e non obbligato, ed io ho ubbidito. Il ruolo della bimba sporcacciona mi appartiene da sempre, e lui mi ci ha cresciuta dentro.

Così, a volte, lui sembra davvero mio padre, ed io realmente sua figlia.

“Ciao Ludovica”, Michael le sorride, si conoscono.

Lei per tutta risposta piega le labbra in un sorriso strano, un sorriso che interpreto io, di premeditata intesa, quando poi lei gli schiocca un bacio sulle labbra, a cui lui non risponde ma nemmeno lo impedisce.

“E’ tua questa bambolina?” lei esulta esageratamente, “ si chiama Valentina se non sbaglio”, ride, di nuovo, fa cenno dalla mia parte e senza guardarmi in faccia si rivolge a lui. Lei mi indica con la mano aperta, le sue unghie sono lunghe e ben laccate, nere e in evidenza.

“Lo è”, Michael le risponde, come a mettere un punto, ed io lo adoro per questo, so che lo fa più per me che per lei.

Poi però si rabbuia, quasi subito, prende a scrutarla, è vibrante, ed io resto colpita da quell’intimità che ne emerge. Ludovica se ne accorge, sente il peso del suo sguardo così come lo sento io.

Io mi raggelo.

I suoi occhi si sono fatti duri, la penetrano, Ludovica si tende, non ride più, io tremo, non posso evitarlo, è uno spasmo di gelosia quello che mi attraversa la mente.

Lui stavolta nemmeno mi guarda, non mi incoraggia, ed io non oso parlare.

Così è lei che torna a guardarmi, e pronuncia ogni parola che segue con una voce talmente affettata, che a me sale una voglia violenta di prenderla a schiaffi e farla soffrire: “Bè… mi aspetto che tu sia una bambina ubbidiente, che tu abbia imparato a comportarti e a rispondere a modo. Capisci cosa voglio dire? Questa è una serata speciale.”

E davvero non capisco, ho la sensazione che alluda a qualcosa che ancora non conosco.

Quella donna, il cui corpo immagino sottoposto alle peggiori torture e tormenti, incatenata al palo e trafitta al cuore, quella donna mentre parla, mostra già di essere palesemente eccitata. E si eccita parlando di me.

Io mi vedo ad affondare le sue unghie da puttana nella sua stessa carne, e divento ostinata, mi gonfio d’orgoglio, sono del tutto andata, sono troppo stupida e agitata, io non resisto, le rispondo male: “Non penserai che a renderti speciale questa serata sarò proprio io?” e rido, anche se miseramente già l’avverto, presto mi dovrò compiangere.

Lui reagisce all’istante, mi dà uno schiaffo. Bruciante. Ma è la durezza del suo sguardo a farmi male. Lui mi imbambola, mi piomba ad una velocità indescrivibile dentro una condizione astratta di inutile automa.

Io non mi sono resa conto, che alla fine la carne lacerata sarebbe stata la mia, non mi sono resa conto che il loro gioco sarebbe diventato il mio.

“Bambina, devi fare la brava, sai che non mi piace quando ti comporti così. Chiedi scusa, Ludovica è stata gentile con te”, il suo tono è secco, mi prosciuga.

Io resto muta, lo guardo negli occhi e lui vi trova tutta la mia supplica, la speranza che lui mi sorrida e mi dica, sto scherzando: io, ti prego, vorrei dirgli, non chiedermi questo. Ma non oso.

Sono così ingenua, penso, è che non riesco a farmi furba, o forse semplicemente sentirmi umiliare mi piace troppo.

“Allora?” insiste lui, nonostante il rimprovero il suo tono è cortese, ma la rabbia mi brucia le guance.

“Fa pure come vuoi, non importa, se preferisci così”, la voce è impenetrabile, lui mi tiene in pugno, e lo sa.

“Ecco…”, cerco di dire qualcosa, ma che potrei dire? Lo guardo con occhi da agnello sgozzato, cerco di smuovere la sua compassione, perché a lui non posso dire di no, a lui proprio non posso dirlo, ma non voglio farlo, non voglio scusarmi con lei.

“Scusami Ludovica…”, la mia voce esce stentorea, mi sforzo di sembrare convincente, “credo di essere troppo nervosa stasera, mi dispiace, non volevo essere antipatica”, mi consolo pensando a lui, a lui soprattutto, che sia fiero di me.

Io non sopporto l’idea di deluderlo.

Io non ho diritto di essere gelosa, è il suo piacere l’unica cosa che conta.

“Non ti preoccupare”, dice lei, la sua voce è suadente, ora lo intuisco, lei è una pedina di lui, “anch’io mi sentirei a disagio, se tra tanta bella carne in mostra, avessi una bella faccina da bambina dell’asilo come la tua”, lei ride ancora, sommessa stavolta, è del tutto inopportuna, ma quel gioco di ruolo lo richiede, e sortisce il suo effetto, mi stranisce, per il dubbio che mi residua nella mente. Lei minaccia di venire avanti e di toccarmi, io d’istinto mi allontano, e so già che lui ha notato il mio rifiuto.

Michael mi sorride con puro sarcasmo, lo diverto, lui mi sa oltre quello che sembra, da sempre, ben oltre, è pronto a tagliare uno ad uno tutti i miei nervi scoperti, a batterci sopra non concedendo respiro, “baciala avanti, falle sentire che sei sincera”, e lo dice con un tono perentorio che non ammette replica, mentre io non mi voglio rendere conto, non ancora, non sono pronta, io resto ferma, con le sue parole che mi si serrano in gola.

“Le brave bambine sanno farsi perdonare…”, il tono è severo, lui mi entra dentro e sento che preme sulle pareti del cervello come un principio fondamentale dell’esistenza.

Lei ha uno sguardo di trionfo, mi sfida, “puoi farlo, vieni”, io non riesco a sopportarla, ma non posso tirarmi indietro. Farò finta di baciarla, penso, e prima che se ne renda conto, immagino io, l’addenterò sul collo per vederla agonizzante a terra.

Così la mia bocca si posa sulla sua, la bacio sulle labbra, e lei mi risponde con una naturalezza così totale, che mi trasporta e mi sorprende, mentre le nostre lingue si saldano sicure, io vorrei farle male, la risucchio con forza, ma la sua lingua si scioglie, è morbida e calda, lei mi bacia con una dolcezza infinita.

Io quasi resto delusa, lei mi si stringe contro, mi si abbandona facilmente, quasi subito, sconsideratamente fra le mie braccia.

Con un gesto autoritario che potrebbe appartenere a lui, allora la tengo e la trascino, lei mi cede, non si oppone, io decisa la spingo su un divano, e la mia determinazione non conosce resistenza.

Ora io so, io sono sempre l’animale che lui ha addestrato al suo volere.

Penso a lui, e sento il potere del possesso.

Lei si tende, il suo corpo segue ogni mio movimento, lo sento, lei mi appartiene. La mia lingua torna da lei, la fruga più a fondo, in bocca, mentre lei mi attira a sé, inarca il suo corpo, e quasi si incolla al mio.

Poi, per un attimo la guardo, le sorrido, e con uno scherno che lei non percepisce l’accarezzo fra le cosce, finché con i denti stringo e le slaccio i nastri del bustino, mentre i suoi gemiti li sento, salgono, lei si è arresa, mi esorta.

Le mie mani afferrano i sui suoi seni, facilmente li estraggo dalla scollatura, sono piccoli e appuntiti, e la mia bocca scivola, subito, liquida, a succhiare, leccare, titillare, mordere quei capezzoli che sprizzano tra i lacci.

La guardo, lei è accecata di voglia, s’inarca ancora. Mi offre il suo ventre divaricando le gambe, ed io l’accarezzo, sul sesso, mi compiaccio di quella che sono, di ciò di cui lui mi ha reso capace.

E in quel preciso momento, lui viene verso di noi, lui sbatte la mia faccia sulla sua figa e mi infila le dita nel sesso. Io gemo e non desidero altro.

Mi prostro, sfioro quel desiderio così simile al mio, così diverso, e mentre lui mi fruga e mi rende incosciente, un animale così ben disciplinato, dimentica di tutto, sua, “prendimi”, lo imploro, “fammi male”, lo supplico, e mentre lui mi sommerge dentro me stessa, mi sussurra, “falla godere, adesso, voglio guardarti, fallo”.

E la mia mano risale lungo le cosce di quella donna che adesso desidero, lei è già umida, già nuda, liquefatta di senso, lei si protende ancora verso di me, si offre di più e spinge il suo ventre sulla mia bocca. La sua pelle è rosea, liscia, il suo sesso pulsa come una ferita aperta. La mia lingua prosegue, la tocca, la lecca.

Io lentamente scendo lungo quella fessura, la lambisco e la cerco, la schiudo di piccoli baci, voglio darle il tormento, poi mi faccio lingua che batte, punta di carne che spinge e la apre. Ed io per lei non esisto, io sono solo fuso di lingua, piccola punta di cazzo che penetra e scava, io sono solo lingua dura che implacabile sfrega.

Io indugio.

Poi accelero.

La riempio e la svuoto.

Io la raggiro, e su quel vertice insignificante di carne a cui si riduce infine tutto il suo corpo, io m’inchiodo a perno costante, mi concentro e la succhio.

Il suo ventre si apre, lo sento, mentre con le dita la frugo, intanto che l’altra mano scende e cerca più in basso, si bagna e deflora, entra, nella rosa corrugata e ristretta.

Lei si apre, ed io la penetro due volte ed a fondo, la incido dentro la carne. E lo sento, la sua fessura più stretta si stringe inesorabile intorno alle mie dita e poi si allenta. Io la insidio e la sconvolgo, sono punta di lingua che s’indura e s’incunea sul fondo.

Lei sgomenta mi afferra, si avvinghia, mi affonda le sue mani tra i capelli, si attorciglia alle mie trecce, lei mi preme contro e si erge scandalosamente.

Lei si apre ed io anche, quando lui con le mani mi separa le gambe, mi annega la mente con la sua lingua a sua volta. Lui mi risucchia e mi tiene, lui lo prende, il mio piccolo cazzo che sporge e si gonfia, che mi rende una schiava ermafrodita e devota.

Lui mi prende e mi trastulla, poi si sostituisce alle mie dita, attira lei a sé e la penetra, sprofonda, a turno, quel tanto che ci inebria, finché ci riconduce insieme di lato, su un fianco, in un unico corpo, lui ci fonde colmandoci il ventre, abbandonandoci sole, a noi stesse, così che lei stringe, tra le sue gambe mi serra la testa, mentre io a mia volta mi avvinghio e contro di lei alla fine mi annullo.

Contemporaneamente, quando il piacere del dominio mi sovrasta. Mentre lei s’inarca ed urla, estenuandosi, per il piacere che l’inonda e che mi eccita, straziandosi ripetutamente contro le mie labbra.

Noi ci diamo con la stessa intollerabile insistenza, al ritmo controllato ed ossessivo che lui ci imprime nonostante la distanza.

Noi siamo un canto che si placa e si tormenta, finché monta la violenza, noi ci scivoliamo addosso, innamorate nell’inconscio, finché si placa il bisogno di ogni rantolo.

Ed io lui lo sento intanto, i suoi occhi ci imprigionano legate, io sento il suo sorriso che ci indaga, e nel mentre si compiace, io sento il piacere che lo gonfia nello sguardo.

Finché, l’impeto che è esploso poi si spegne, ed io la lascio andare, da lei mi slaccio, mentre lui lo so è fiero, di me, di noi, ed io non chiedo altro.

A lei sorrido adesso, mi sento protettiva, voglio rassicurarla a fondo, così la stringo a me, e lei subito mi abbraccia, ride, ora è tenera e calda. Io la ringrazio, le dò un bacio dolcemente sulle labbra e le restituisco il suo sapore aspro, intenso, che lei con me ricambia, e “darling”, le dico, in un sussurro, “sei una gattina deliziosa”, la mia voce lei la coglie è maliziosa, ancora una volta lei si sente trattenuta, vicina, legata, e ancora disposta.

Poi, i suoi occhi cercano i miei, lei mi guarda, e prima che una qualsivoglia parola ci riempia la bocca, insieme, gattoni, procediamo attraverso la stanza, in ginocchio verso di lui…





(A Michael e Ludovica)